Metal Gear Solid V: The Phantom Pain – la recensione

Ci sono giochi che nascono per intrattenere, altri per raccontare. Giochi che descrivono la storia, e altri che la scrivono. Giochi che seguono l’arte, altri che lo diventano. Poi c’è Metal Gear, la saga nata quasi 30 anni fa dalla mente di Hideo Kojima, un uomo che ha usato un mezzo, il videogioco, per raccontare un mondo che nella sua mente era già completo sin dall’inizio, era già così come oggi finalmente lo conosciamo.
Metal Gear Solid V: The Phantom Pain è l’opera ultima di Kojima, quella che chiude il cerchio narrativo che si è esteso cronologicamente negli anni precedenti, raccontando le gesta di Big Boss, e in quelli futuri, con protagonista l’enfant terrible David, aka Solid Snake. Teoricamente, tutto quanto è rimasto sospeso nell’intera saga, tutti i dubbi, i vuoti, i misteri e le informazioni mancanti, tutto avrebbe dovuto trovare risposta in questo capitolo finale di Big Boss, consegnandolo alla leggenda come il vero protagonista della saga di Metal Gear.
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MGSV: The Phantom Pain chiude il cerchio narrativo che si è esteso cronologicamente negli anni precedenti, raccontando le gesta di Big Boss, e in quelli futuri, con protagonista l’enfant terrible David, aka Solid Snake.

Ma Kojima è strano, geniale ma anche terribilmente enigmatico e contorto, si disperde nelle migliaia di conversazioni, tracce audio, documentazioni e filmati segreti e lascia la possibilità solo al giocatore più accanito di scoprire cosa si cela veramente dietro alla prima e ingannevole verità che il game designer mette sotto i riflettori.
Partiamo dall’inizio: MGSV: TPP comincia esattamente da dov’era finito Ground Zeroes, il suo prologo. Il gioco inizia con un episodio 0, dove riprendiamo il controllo di Big Boss appena uscito da un coma lungo 9 anni, conseguenza dell’esplosione che ha visto Paz sacrificarsi per salvare la vita di Snake. Una serie di vicissitudini ci fa ritrovare Ocelot, per poi finalmente ricongiungerci a “Kaz” Miller, insieme al quale inizia la rinascita della Mother Base e dei Militaires Sans Frontiers sotto il nuovo nome di Diamond Dogs, con obiettivo la vendetta nei confronti di Cipher e Skull Face.
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Fatta questa premessa, il gioco inizia a proporre una serie di missioni in stile MGS Peace Walker dove Snake deve portare a termine alcune offerte di lavoro commissionate da clienti che necessitano dei servizi dei DD, nelle quali bisogna eliminare un determinato soggetto o distruggere qualcosa e così via. Di fatto, fino alle missioni 11-12 non c’è alcun progresso nella storia se non qualche incontro con forze nemiche appartenenti a Cipher (i TESCHI) e qualche pista seguita da Miller per scoprire i piani di Skull Face.
A fare da contorno ci sono le missioni opzionali, le cui prime sono praticamente essenziali per  iniziare un minimo di sviluppo della Mother Base, mentre alcune di esse sono definite dal gioco “importanti“, ovvero incidono direttamente sulla trama e devono essere seguite per poter sbloccare le missioni seguenti.
Il primo grande dubbio di MGSV nasce proprio dalla scelta di design di dividere il tutto in missioni, spezzettate tra loro e alcune eseguibili anche in ordine random, completando le quali si sbloccano quelle successive.
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MGSV: TPP è diviso in due capitoli (più qualche altro mezzo capitolo non etichettato come tale, come l’episodio 45). Il primo si camuffa da storia principale e segue lo sviluppo tipico della saga: minaccia rilevata, Big Boss è costretto a eseguire una serie di compiti per trovarne le cause, arriva al punto di fermare tutto e alla fine una gran bella scazzottata contro un Metal Gear mette fine al pericolo; in mezzo ci sono una quantità innumerevole di emozioni, colpi di scena e momenti epici che hanno contributo a rendere la saga una delle migliori di sempre. Il finale, poi, ha sempre rivelato una verità nascosta che il giocatore ha ignorato fino a quel momento e che costringe a rivalutare tutto quanto fatto e detto sino ad allora.

Alcuni interrogativi generati dal gioco stesso alla fine vengono lasciati in sospeso, senza conferme né smentite.

Questa seconda parte in MGSV: TPP è relegata al capitolo 2, una serie di missioni principali e opzionali che portano a quello che è il vero finale del gioco e appunto alla rivelazione “inaspettata” che tutti attendevano e che avrebbe finalmente dovuto spiegare ogni cosa, dalla nascita dei Patriots all’incidente di Outer Heaven, dall’ascesa di Big Boss a capo della tanto disprezzata FOX all’arrivo di Solid Snake come suo agente, dalle sorti di Zero ai dettagli sul progetto Les Enfantes Terribles (compreso Solidus), dalle sorti dei cloni di Boss a, perché no, qualche info su Jack “Diavolo Bianco”, aka Raiden.
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L’obiettivo principale del trio Boss-Miller-Ocelot è far rinascere la Mother Base e gli MSF sotto il nuovo nome di Diamond Dogs ed esigere vendetta contro Cipher e Skull Face.

Il problema è che non c’è niente di tutto questo. MGSV non fornisce informazioni su quasi nessuna di queste questioni, se non sommariamente in alcune audiocassette sbloccabili. Niente di niente, l’intero gioco, dopo 50 missioni principali (delle quali 12 sono esattamente la versione più difficile di altrettanti episodi del capitolo 1) e una dozzina di “opzionali importanti”, aggiunge solo un’unica grande rivelazione all’universo narrativo della saga che aiuta a spiegare qualcosa, ma fa anche un po’ storcere il naso, soprattutto a causa di altre informazioni date alla fine di Guns of the Patriots che vanno in contraddizione.
Non potendo fare spoiler non è possibile scendere nel dettaglio, ma alla base di tutto c’è che The Phantom Pain è proprio un capitolo a sé stante, con una storia contorta, spezzettata, narrata a singhiozzi, condotta contro un nemico caratterizzato male e che alla fine se ne va come era arrivato, senza lasciare nulla alla saga. Un “cattivo” creato dal nulla alla guida di una minaccia troppo complessa che viene pompata per tutto il gioco ma non raggiunge mai i livelli di epicità per i quali la saga è famosa. Il tutto condito da alcuni indizi su possibili spie, tradimenti e trame alle spalle di Boss ai quali non viene dato granché seguito. Basti pensare che il livello più alto di narrazione si raggiunge nell’episodio (opzionale) 45, l’unica grande missione a non essere stata spezzata con un deprimente “Continua” proprio sul più bello solo per fornire al giocatore l’occasione di risistemare l’equipaggiamento.
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Come se non bastasse, alcuni interrogativi generati dal gioco stesso alla fine vengono lasciati in sospeso, senza conferme né smentite, se non per l’episodio “Fantasma“, la fantomatica missione 51 della quale si parla nel Blu-Ray della Collector’s Edition e che sarebbe stato sicuramente un finale più epico di quello attuale. Non che sia determinante, ma il finale non è nemmeno una boss battle, ma solo la ripetizione di una missione già affrontata nel gioco con l’aggiunta di due scene. MGSV: TPP anziché rivelare tutte le verità ancora nascoste della saga aggiunge solo interrogativi, mascherando per gran finale un twist narrativo che a dir la verità qualcuno sul web aveva già ipotizzato.

The Phantom Pain è proprio un capitolo a sé stante, con una storia contorta, spezzettata, narrata a singhiozzi, condotta contro un nemico caratterizzato male e che alla fine se ne va come era arrivato, senza lasciare nulla alla saga.

La missione 51, l’episodio fantasma mai realizzato, non ha potuto vedere la luce a causa degli enormi ritardi di sviluppo e delle pressioni di Konami sul rispettare le tempistiche, ma da solo non basta a giustificare la perplessità generale del gioco. Chiunque conosca la saga può facilmente riconoscere che questo è un Metal Gear atipico, senza la regia né il game design classici della saga; a livello di trama, purtroppo, è il primo Metal Gear a essersi rivelato “appena sufficiente”.
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Se volessimo trovare delle cause a questo risultato, il game design e l’open world sarebbero sicuramente le prime due.
Kojima ha voluto realizzare MGSV come un open world dove il giocatore non ha restrizioni dettate dal level design, ma può spaziare liberamente e soprattutto decidere l’approccio preferito a ciascuna missione. Questo ha generato due mappe, Kabul settentrionale e confine tra Angola e Zaire, enormi e piene zeppe di avamposti e fortezze nemiche disposte più o meno a uguale distanza; difatti, una serie di blackbox inseriti in mezzo a una landa desolata.
Tra un punto di presenza nemica e l’altro non ci sono altro che sabbia, erbacce e soprattutto montagne, specialmente in Afghanistan, molte delle quali non sono attraversabili. Il giocatore, quindi, all’interno dell’illusione dell’open world, può spostarsi praticamente solo lungo le strade principali e i percorsi secondari, vedendosi comunque costretto ad affrontare una continua resistenza nemica.
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Il giocatore, all’interno dell’illusione dell’open world, può spostarsi praticamente solo lungo le strade principali e i percorsi secondari.

Se in quanto a realismo è una soluzione plausibile, all’interno del gioco fallisce sotto ogni aspetto e il ritmo di gioco ne risente tantissimo. La soluzione “più comoda” è farsi recuperare dall’elicottero, tornare al Centro di Comando Aereo (CCA) e farsi consegnare presso il punto d’atterraggio più vicino alla nuova missione, ma comunque tra animazioni e preparazione ogni volta si perdono dai 3 ai 6 minuti, senza contare il costo di dispiegamento e il fatto che in questo modo il principio dell’open world smette di esistere. Anche volendo andare per la via dell’esplorazione libera, il 90% delle missioni sono tutte basate sugli stessi avamposti e fortezze, solo con obiettivi appena diversi e qualche minaccia in più di tanto in tanto (mine o soldati corazzati).
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In 50 ore di gioco il giocatore si ritrova a reinfiltrarsi nella stessa base nemica anche più di 5 volte per ciascuna, con un fattore ripetitività che solo chi ha preso tutti i Trofei/Obiettivi in Ground Zeroes conosce. A completare lo spettacolo c’è da considerare che nonostante la libertà di approccio, la soluzione tranquillanti/silenziatore (sia dalla breve che dalla lunga distanza) è sempre, SEMPRE, quella più proficua, andando a escludere quasi naturalmente qualunque altro approccio.
La varietà si ottiene con il supporto delle differenti spalle e se ci si trova di fronte a mezzi pesanti, dove l’approccio furtivo può ancora essere perseguito ma non è sempre il più semplice.
Quiet
Il gameplay in sè di Metal Gear, tuttavia, è praticamente perfetto. L’infiltrazione, lo studio del nemico attraverso la marcatura, la possibilità di usare diversivi, di interrompere le comunicazione con gli altri avamposti o la fornitura di corrente elettrica, di utilizzare gli stati di allerta e allarme del nemico a proprio vantaggio, le reazioni a particolari azioni, la modalità Riflesso stessa, tutto è perfetto, lo stealth action game per eccellenza, il livello più alto mai raggiunto dalla saga.

La struttura a missioni non si addice allo stile narrativo, uccide i momenti di climax, azzera la suspence, rende il tutto un mero accettare una missione e completare un obiettivo.

L’IA nemica si comporta magistralmente, tutto è come ce lo si aspetta e non ci sono più quelle ferite da arma da fuoco seguite da frasi come “dev’essere stata la mia immaginazione”. Anche l’IA alleata è fantastica: le spalle “autonome”, ovvero Quiet e D-Dog, non sbagliano un colpo, mirando sempre al nemico giusto, attaccando sempre quello che si desidera, rispondendo bene ai comandi e senza trovarsi mai in mezzo. Il D-Horse e il D-Walker si rivelano altrettanto preziosi, il primo come “mezzo di trasporto” veloce e furtivo, il secondo per l’enorme efficacia data dalla sua versatilità e da un sistema di personalizzazione con i fiocchi che si estende anche all’elicottero e a tutto l’equipaggiamento.
Interrogatorio

Le spalle “autonome”, ovvero Quiet e D-Dog, non sbagliano un colpo, mirando sempre al nemico giusto, attaccando sempre quello che si desidera, rispondendo bene ai comandi e senza trovarsi mai in mezzo.

Tutto questo senza considerare l’enorme mondo attorno alla Mother Base, nella quale è possibile impiegare i soldati recuperati in missione tramite sistema Fulton assegnandoli a una delle sei (sette contando l’online) unità, ognuna con un ruolo fondamentale e il cui livello più alto si traduce in vantaggi maggiori, dalla possibilità di sviluppare armi e oggetti a quella di fornire rifornimenti e supporto aereo in missione.
All’unità di combattimento infine spettano anche le missioni esterne, simili a quelle già viste in Peace Walker, dove si possono dispiegare le proprie unità per ottenere GMP (la valuta del gioco) e oggetti o materiali utili. Questi ultimi sono una novità e prevedono che Snake li raccolga in missione sotto forma di scatole o container, essendo essenziali per la produzione di qualunque oggetto, arma o piattaforma.
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Il modo più interessante di recuperarli è attraverso le missioni FOB, ovvero infiltrazioni PvP online atte a rubare le risorse di altri giocatori, ma purtroppo i server di Konami sono ancora in manutenzione e non ci è stato possibile provarle al di là dell’addestramento.
Un altro aspetto da lodare di questo Metal Gear si conferma essere il FOX Engine, il motore realizzato da Kojima Productions che porta la fedeltà della grafica a livelli fotorealistici sia per i personaggi che per gli effetti di luce e la qualità degli ambienti, con una cura dei dettagli maniacale che si realizza appieno nel personaggio di Quiet, dove le espressioni sono riuscite a essere così fedeli da trasmettere tutto il necessario anche senza proferire parola (e le forme si lasciano apprezzare ugualmente). Onore anche agli effetti sonori e soprattutto alla colonna sonora, mentre un aspetto essenziale lo gioca la caratterizzazione degli accenti di ogni singolo personaggio, apprezzabile nelle innumerevoli audiocassette che rappresentano la fonte più importante di informazioni sulla storia principale (senza ascoltare le quali non si capisce molto).
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Una cura dei dettagli maniacale che si realizza appieno nel personaggio di Quiet, dove le espressioni sono riuscite ad essere così fedeli da trasmettere tutto il necessario anche senza proferire parola.

Metal Gear Solid V: The Phantom Pain è un gioco grandissimo, con un gameplay da favola e una qualità tecnica che molti titoli si sogneranno ancora per qualche anno, probabilmente. Non è un gran gioco, purtroppo, con numerosi ed evidenti limiti nel game design, proprio quello che sarebbe dovuto essere il punto di forza di Kojima. Il suo sogno di un Metal Gear open world fa un tonfo memorabile: la struttura a missioni non si addice allo stile narrativo, uccide i momenti di climax, azzera la suspence, rende il tutto un mero accettare una missione e completare un obiettivo, spezzettando eccessivamente una trama già abbastanza contorta. La regia poi non sembra nemmeno la stessa: se si esclude la missione 45 (opzionale, ma vera piccola perla del gioco) e quello che speriamo sarebbe potuto essere la missione 51, non esiste un momento davvero emozionante. Anche sforzandosi, ciò che resta sono solo domande sul perché il gioco si fermi proprio quando dovrebbe concludere l’affondo.
A livello di trama, MGSV è un titolo quantomeno incompleto, per non dire carente visti gli standard della saga: avrebbe bisogno forse di un epilogo, di quell’episodio 51 ma anche di un altro paio per capire come finiscono certe cose.
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Per gli amanti degli obiettivi tutte quelle missioni potrebbero sembrare il paradiso, ma questo se non fosse che la ripetitività la fa da padrona e addirittura un quarto di gioco in pratica è la riproposizione a difficoltà maggiorata di missioni già completate. La varietà di approccio tanto agognata è apprezzabile, ma dopo poco ci si rende conto che si tratta di una chimera e ci si affida alla combinazione di “non-letale/D-Dog/notturna”.
In poche parole i ragazzi di Kojima Productions meritano i migliori applausi per il lavoro fatto, il gioco fila liscio senza un bug nonostante sia immenso e il gameplay è una pietra miliare, ma Kojima prende una cantonata enorme e soggioga la sua opera più importante a quella che forse era una sua ossessione personale, ovvero lo stealth action open world con meccaniche strategiche, riuscitogli solo in minima parte.
Chi si aspettava il 10 e lode ne rimarrà molto deluso e dovrà limitarsi ad accettare un finale ricco di perplessità e poco pathos. Niente pianti, niente emozioni, nessun momento epico.
Se davvero Kojima non realizzerà mai un altro Metal Gear, abbiamo perso la conclusione perfetta per una saga che fino ad ora lo era stata.
Missione fallita.

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