Quando i videogiochi aiutano a superare un passato di violenza

Ancora una volta l’associazione è quella dei videogiochi con la violenza, anche se non come ci si potrebbe aspettare. Fra le storie di pregiudizio e giudizio negativo sul mondo videoludico come presunto promotore dei comportamenti violenti, infatti, sempre più spesso si infilano racconti che vedono i videogiochi come protagonisti positivi della vicenda. È il caso di Dan Starkey che, in un articolo molto personale pubblicato su Kotaku, racconta la sua storia e il suo rapporto singolare con i videogiochi e con, in particolare, il loro lato violento.

Dan è cresciuto in un ambiente molto negativo, in un quartiere di periferia in USA dove la criminalità era alta, e non era raro trovarsi faccia a faccia con una pistola. In quell’ambiente Dan, costantemente esposto a modeli negativi, si è trovato a formare senza rendersene conto un carattere molto ostile e con una spiccata tendenza alla violenza.

Diversi sono stati gli episodi in cui Dan è stato “il cattivo” della situazione, quando era bambino o appena adolescente, e l’ultimo ha davvero rappresentato un’esperienza significativa: Dan ha aggredito un compagno di classe che ha avuto la bella idea di insultare sua madre, picchiandolo selvaggiamente e, alla fine, sfoderando un coltello che aveva preso in casa. Dan era fuori di sé ed era convinto di ciò che stava facendo e, se i compagni di classe non fossero intervenuti per fermarlo, avrebbe accoltellato il ragazzo – e probabilmente lo avrebbe ucciso. Riuscire a evitare questa terribile esperienza ha in qualche modo segnato l’inizio di una fase diversa per Dan, fase che vede come parte fondamentale i videogiochi tanto condannati dai media: quelli violenti, anzi violentissimi.

Parliamo in particolare di titoli come Manhunt e Hatred, decisamente più violenti dei vari episodi di Grand Theft Auto o Call of Duty. In che modo hanno avuto un ruolo positivo, questi giochi, nella vita di un ragazzino tanto problematico? La risposta non è facile da comprendere nel profondo, ma è molto significatica: lo hanno aiutato a conoscere sè stesso.

Dan ha fatto diverse sedute psicoterapiche negli anni e queste sono, come molti sanno, spesso concentrate sulla comprensione delle cause che portano una persona a manifestare comportamenti sconvenienti, inusuali, autodistruttivi, violenti e molto altro. Nel caso di Dan la conoscenza di sè è stata fondamentale, in particolare perché ha iniziato a manifestare la violenza da bambino e quindi in una fase delicata della sua vita, una fase dove il livello di consapevolezza non può essere particolarmente alto. Affrontare videogiochi con scene molto violente ha aiutato – e ancora aiuta – il protagonista di questa vicenda a conoscere e affrontare lati molto profondi e bui di se stesso.

Ci vuole molto coraggio per affrontare questi lati del proprio animo e riuscire a comprendere le cause, che nel caso di Dan erano probabilmente autodifensive: il Dan bambino si sentiva costantemente minacciato dal mondo che lo circondava, ed era convinto di dover combattere duramente per poter sopravvivere. Grazie alla terapia e al supporto dei videogiochi, però, Dan è riuscito a conoscersi sempre meglio e a stimolare l’empatia nei confronti delle vittime di violenza e, in questo modo, i comportamenti violenti non hanno più avuto bisogno di manifestarsi in maniera incontrollata.

Quando mi dedico a un videogioco estremamente violento, posso accedere alla parte più oscura di me” dice Dan, parlando in modo molto diretto dell’esperienza, aggiungendo: “Giochi come Hatred hanno il potere di ricordarmi chi ero e che i progressi che ho fatto sono reali. Prova che posso ancora sentire qualcosa, sono in grado di provare empatia, posso provarlo… e scelgo di non ferire nessuno”.

Ancora una volta dimostriamo come la violenza dei videogiochi (che emula e non ispira la violenza del mondo reale) possa avere un’influenza assolutamente opposta a quella che si crede, rappresentando in alcuni casi non solo uno svago ma un valido aiuto. Sicuramente ci vuole una certa maturità per avere il coraggio di convididere un’esperienza tanto intima con la rete, sottoponendosi a diversi giudizi spesso superficiali, con l’obiettivo di diffondere concetti più realistici e combattere i pregiudizi che, per quanto riguarda i videogame, sono ancora molto diffusi.

Fonte: kotaku

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