Shadow of the Beast – la recensione

Shadow of the Beast era un gioco sbalorditivo quando venne distribuito per Amiga nell’ormai lontano 1989. In un periodo in cui i sistemi a 8-bit erano mainstream e il potenziale dei 16-bit doveva ancora essere esplorato, il titolo offriva una grafica bellissima per quel tempo, grandi sprite e ben 12 livelli di parallasse: tecnicamente parlando, il massimo per un videogioco di fine anni ’80. Degni di nota anche l’audio polifonico e le musiche di altissima qualità. Tuttavia, sebbene fosse uno spettacolo da vedere, non crediamo sia mai stato veramente divertente da giocare per via di una difficoltà oltremodo esagerata. Bella da guardare e brutale nella sua interezza, questa rivisitazione del primo gioco è certamente un piacere per gli occhi e prova a lasciare il segno con un paio di idee interessanti, pensate per rendere più moderna la sua miscela di platform e combattimento, ma non diventa mai abbastanza coinvolgente da consigliarne l’acquisto se non per curiosità – o per nostalgia.

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Ancora una volta viene raccontata la storia di Aarbron, una creatura un tempo umana tenuta in schiavitù da forze oscure e malvagie. Macchina da guerra viziosa ed efficiente, durante una delle sue frequenti razzie risveglia un ricordo sepolto da tempo, dopo aver ucciso un sacerdote del tempio di Karamoon: rimembra quindi che molto prima di obbedire al mago che lo governa era un bambino, rapito proprio dalle entità che lo hanno trasformato in una bestia distruttiva. Da qui nasce la rabbia che spezza le catene della sua prigionia, spingendolo a ribellarsi. In un platform che ricorda lievemente Prince of Persia, i giocatori dovranno quindi impersonarlo e prepararsi a uccidere orde di nemici; normali esseri umani, servitori del male e gigantesche vespe volanti.

Shadow of the Beast è un remake citazionista e nostalgico del gioco uscito nel 1989.

Nel corso della sua avventura, Aarbron farà affidamento ai suoi pugni, che dovrà usare violentemente e senza remore per smembrare i suoi nemici: si potrebbe dire che il titolo sia in parte un brawler ritmico, che dà molta importanza al tempismo nel combat system e propone parecchi sbloccabili con la speranza di incrementare il fattore rigiocabilità – non soltanto la versione originale del primo Shadow of the Beast (con l’opportunità di avere le vite infinite per facilitare l’esperienza), ma anche la possibilità di ascoltare la colonna sonora di Dave Whittaker, di vedere l’art originale della copertina, di seguire un playthrough dell’originale o di leggere un breve articolo relativo alla trilogia. Parecchi contenuti per i nostalgici, ma questo non basta per attrarre coloro che sono digiuni o che comunque non hanno amato particolarmente il titolo del 1989. A meno che non siate masochisti (o grandi fan della serie), infatti, è difficile che giocherete il remake una seconda volta, proprio perché come l’originale è piuttosto ripetitivo.

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Ci sono un paio di mosse nel repertorio di Aarbron che tentano di rendere il sistema di combattimento divertente: può pararsi e schivare i colpi, e ha differenti attacchi che permettono di riempire una barra energetica che attiva l’utilizzo di mosse speciali. Tre tacche potranno dunque essere usate per eseguire colpi che aumentano il punteggio (di cui parleremo tra poco), rifornire di energia il personaggio e attivare una super combo in stile QTE che permette di far piazza pulita di tutti i nemici su schermo tramite una pressione di tasti a tempo. Ci sono anche armi speciali, come degli spuntoni che sbucano dal terreno e un cannone laser di grande potenza recuperabile in una fase più avanzata del gioco.

I giocatori dovranno impersonare Aarbron e prepararsi a uccidere fiumi di nemici.

Peccato che tutto sia un po’ ridondante. Le sequenze di platforming sono sviluppate seguendo i soliti elementi strutturali dei giochi a scorrimento laterale, con teletrasporti da utilizzare per raggiungere zone altrimenti inaccessibili, leve da attivare, salti e arrampicate, il tutto in ambientazioni realizzate in maniera discreta ma mai particolarmente dettagliata. I controlli non sono impeccabili e spesso l’input arriva un po’ in ritardo, ne consegue che non si è mai certi di cosa finirà per fare Aarbron. Non sarà raro che vi ritroverete davanti a game over frustranti proprio per colpa dei lag, una situazione tutt’altro che piacevole.

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Se anni fa il punteggio era una componente essenziale dei videogiochi per dare valore alla performance dei giocatori, con il passare del tempo è stato messo da parte – talvolta sostituito da achievement e trofei. Il remake di Shadow of the Beast lo riprende e gli dà maggiore importanza, visto che più sarà alto e più permetterà di scoprire ciò che nasconde ogni livello di gioco. Infatti, ogniqualvolta si affronteranno dei combattimenti, al giocatore verrà data una valutazione tramite un sistema di medaglie che permetterà di sbloccare (con quella d’oro o superiore) incontri altrimenti inaccessibili. Ma il punteggio serve anche a rendere più forte Aarbron. Alla fine di ogni stage, infatti, potrà essere convertito in mana e speso nel menu chiamato Saggezza delle Ombre: per esempio, si potrà scegliere se aumentare la quantità di sangue che viene recuperata a ogni uccisione, oppure la potenza degli attacchi e la salute.

Ogni scontro aumenta il punteggio finale del livello, che viene inserito in una classifica mondiale.

Inoltre, il mana servirà per acquistare i tomi proibiti, utili a tradurre la lingua incomprensibile delle varie razze presenti nel gioco; va infatti detto che la storia viene raccontata attraverso le sole immagini, a meno che non si decida appunto di recuperare questi particolari volumi. Se siete alla ricerca di un titolo longevo vi consigliamo di guardare altrove: abbiamo completato la prima run in circa 3 ore e la voglia di cimentarci nuovamente nell’impresa per migliorare i risultati ci è mancata. Se l’obiettivo diventa però quello di ottenere il massimo della valutazione in ogni fase di combattimento allora la quantità di ore offerte da Shadow of the Beast aumenta considerevolmente, e il modico prezzo d’acquisto (15 €) lo rende pure invitante.

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