Gone Home

Una casa deserta in una notte tempestosa può prospettare vicende dagli esiti facilmente prevedibili a chi di luoghi simili ne ha esplorati a iosa, costellati di creature mostruose, entità sovrannaturali o, nei migliori dei casi, dalle aberrazioni della mente umana. Ma questo è previsto, e anche auspicabile, in fondo.

Di condizioni base necessarie a godersi nel migliore dei modi Gone Home ne esistono parecchie. Aiuta conoscere il meno possibile del gioco, soprattutto in tempi in cui gli spoiler si annidano negli angoli più imprevedibili della vita informatica: in questo caso, anche qualche dettaglio di troppo può facilmente arrivare a pregiudicare l’intera esperienza. Aiuta ritagliarsi qualche ora da dedicare pienamente al titolo in questione, magari in una sola seduta, come si farebbe con un buon film, anche se non sono poi tanti i tratti in comune con il grande schermo. Aiuta decisamente munirsi di un buon paio di cuffie e di pazienza.

La struttura di Gone Home, con i contenuti che formano il gioco disposti in attesa di essere raggiunti dal giocatore, a mo’ di romanzo interattivo, assomiglia più a quella delle visual novel orientali.

Non che quest’ultima venga messa troppo alla prova, ma il ritmo di Gone Home è ben dosato (questo per non definirlo, sbagliando, “rilassato”) e pone come condizione base dell’esperienza la curiosità del giocatore: se attraversare frettolosamente e senza prestare attenzione un’ambientazione è un comportamento sbagliato un po’ in ogni genere di videogioco, qui è semplicemente improponibile. Tanto più che l’ambientazione, è, nella sua semplicità, talmente densa e ricca di stimoli da valere quanto un’intera schiera di personaggi. Infine, come si accennava poco fa, aiuta essere un giocatore: esperienze passate e conoscenze pregresse non possono non venire a galla mentre si percorrono i corridoi dell’abitazione: i ragazzi di The Fullbright Company lo sanno molto bene, e non perdono occasione di giocare su aspettative, timori e certezze del giocatore navigato.
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L’atmosfera di casa Greenbriar è tesa e palpabile, con elementi che lasciano aumentare di parecchio le pulsazioni prima di girare l’angolo di un corridoio.

La situazione base è colorata di tinte fosche: nel corso del 1995, Kaitlin Greenbriar, il personaggio del quale ci troviamo a condividere il punto di vista, ritorna a casa dopo un anno trascorso in viaggio in Europa: nel frattempo, la famiglia si è spostata nella vetusta casa lasciata in eredità da un vecchio parente dalla vita misteriosa. La nuova abitazione, tuttavia, si presenta del tutto deserta: nessuna traccia dei genitori né della giovane sorella Samantha, che tuttavia ha lasciato affisso al portone d’ingresso un ambiguo messaggio, scusandosi per l’assenza e pregando che non si vada alla sua ricerca. Insomma, un piccolo mistero che potrebbe mostrare venature di ogni genere. O no. Quel che è certo è che ogni previsione è destinata a rivelarsi sbagliata.
L’atmosfera di casa Greenbriar è tesa e palpabile, con elementi che lasciano aumentare di parecchio le pulsazioni prima di girare l’angolo di un corridoio, mentre non mancano spunti che lasciano presagire avvenimenti truculenti o paranormali alla base della situazione attuale. Più si viene delusi, in maniere deliziosamente crudeli, nelle proprie catastrofiche aspettative, più si rimane indifesi di fronte alle rivelazioni preparate dagli autori: quando queste colpiscono, di conseguenza, l’impatto è di quelli che non lasciano scampo. Sembra che mi stia tenendo troppo sul vago? Non è un’impressione. Come e più rispetto a tante altre storie ben raccontate, Gone Home gioca tutto proprio sulla rivelazione, che spinge a rivedere quanto accaduto nelle poco più di due ore che intercorrono tra essa e l’inizio del gioco convincendo, semmai non fosse accaduto fino a quel momento, di essere di fronte a un capolavoro. Rivelare anche solo una parola in più sull’intreccio di base sarebbe criminale: meglio restare, quindi, sulle vere e proprie meccaniche di questo prodigio dello storytelling interattivo.
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Nelle tante discussioni seguite all’uscita del gioco, in molti sono arrivati perfino a mettere in dubbio la stessa natura di Gone Home in quanto videogioco: per quanto poco cruciale questo aspetto possa essere, a costoro non si può dare pienamente torto. Di fondo, Gone Home può essere classificabile come un’avventura: ci si troverà a esplorare l’ambientazione, esaminando oggetti e scoprendo i frammenti della storia che vi sono legati, splendidamente recitati dalle voci dei protagonisti. L’impronta anni ’90 è infusa con grande acume in tanti dettagli, dagli oggetti alle numerosissime citazioni, passando per una colonna sonora assolutamente azzeccata. Nel corso dell’esplorazione si presenteranno non più di un paio di puzzle, ma è difficile parlare di veri e propri ostacoli: la struttura di Gone Home, con i contenuti che formano il gioco disposti in attesa di essere raggiunti dal giocatore, a mo’ di romanzo interattivo, assomiglia più a quella delle visual novel orientali (che potrebbero trovare in questa formula un modo per guadagnare finalmente un pubblico più ampio).
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L’impronta anni ’90 è infusa con grande acume in tanti dettagli, dagli oggetti alle numerosissime citazioni, passando per una colonna sonora assolutamente azzeccata.

Resta da dire che, nonostante gli ovvi punti di forza, un’impostazione priva di “azione” tradizionalmente (o meno tradizionalmente) intesa potrebbe far storcere il naso anche a qualche giocatore tra i meno chiusi alle novità: la durata ridotta e il prezzo base (18,99 €, nonostante Gone Home sia frequente oggetto di sconti) elevato non rappresentano certo dei punti a favore. A prescindere dai soldi spesi, tuttavia, è dura rimpiangerli nel corso della fruizione: la vicenda narrata cattura sin dalle primissime battute e non dà tregua fino alla conclusione, mentre i personaggi, ricostruiti poco a poco, sono delle creazioni vibranti e pienamente verosimili. Gone Home è poco più di un racconto, ma un racconto come non ne avete mai visti e come non potreste vedere in nessun altro medium, dal momento che viene reso possibile proprio dalle caratteristiche intrinseche del mezzo: e proprio nel suo essere “poco videogioco” finisce per essere un videogioco dei più grandi.

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